I poeti del vino

La viticultura arrivò tutta d’un colpo dalla Grecia all’Italia meridionale. Chiaro che prima dei Greci la viticoltura era già presente nella penisola, in Toscana c’erano gli Etruschi i quali producevano vino allo stesso modo degli Ellenici.

L’episodio che cambiò lo stile di vita dei Romani fu la lunga lotta contro l’impero di Cartagine nel Nordafrica, per il controllo del Mediterraneo occidentale. Cambiò il loro carattere e i cittadini cominciarono a diventare sofisticati e ad interessarsi di viticoltura.

Il primo autore a descrivere nei particolari la coltivazione della vite fu Catone con il suo De Agri Cultura, 160 a.C.

Premier cru

Roma non si limitava a crescere, ma attirava da ogni parte dell’impero gli uomini di maggior talento e abilità. Con loro arrivarono gusti che portarono ad un tenore di vita più alto del passato. Non è un caso che a questo periodo appartiene il primo vino romano premier cru: Opimiano, datato 121 a.C., nella regione dell’agro falerno.

A sud, ad ogni modo, la cultura greca era ancora viva e per i romani, che bramavano i beni di lusso, i prodotti ellenici erano i migliori. La vite che produceva questi vini si chiamava aminea: veniva usata per produrre il falerno, e, più tardi, tutti i vini premier cru della prima età d’oro della viticoltura italiana.

La produzione di vino era simile a quella greca: vendemmie tardive (fino a novembre!), vini dolci, diluiti con acqua calda o di mare e spesso anche cotti. Dai testi però, soprattutto De Re Rustica di Lucio Columella, 65 a.C., impariamo che si prestava particolare attenzione all’agricoltura. I suoi calcoli sono precisi e grazie a lui sappiamo che un buon vigneto romano produceva 60 ettolitri per ettaro. Quanto i migliori vigneti francesi attuali!

Un sapere tramandato

Raccoglievano con un coltello le uve, messe poi in ceste che arrivavano alla cantina, dove venivano pigiate in vasche poco profonde. Perfezionarono persino il torchio: usarono grandi travi per sfruttarne il peso, verricelli per creare pressione e una fune per tenere insieme i grappoli pigiati.

La fermentazione avveniva in dogli di terracotta (dal latino “dolium”, l’equivalente di kwevri e pithos) quasi completamente interrati in cantina. Si usavano anche per invecchiare e trasportare il vino.

I Romani avevano trovato anche il modo di preparare un mosto permanente. La fermentazione veniva arrestata immergendo le anfore in acqua fredda dove rimanevano fino all’inverno. Questo semper mostum era un altro modo per dolcificare i vini troppo secchi per i loro gusti.

Per i Romani un buon vino si riconosceva dal fatto che invecchiava bene. Per cui fecero una netta distinzione fra vini forti e dolci che invecchiavano all’aria aperta e vini più deboli che andavano tenuti in anfore interrate.

Due approcci alle antipodi

L’aspetto più variabile tra il popolo greco e quello romano era l’approccio al vino. 

I Greci non erano grandi bevitori, piuttosto il loro atteggiamento era più sacrale e rituale nell’aspetto del consumo, i loro simposi erano molto composti. 

I Romani, al contrario, erano famosi per la loro sete. Plinio il Vecchio, celebre nobile romano e scrittore, narra della passione per il vino degli abitanti di Pompei. Tra i suoi scritti una descrizione dei loro sforzi quasi frenetici per poter tracannare quante più caraffe possibile, cosa che li portava poi a rigettare tutto per berne altre, a dimostrare la loro forza.

Grandi eredità ma soprattutto grandi influenze che si perpetuano nei secoli fino ai giorni nostri. Vini tutt’ora presenti con la discendente denominazione romana: Falerno del Massico DOC. E che dire dei Vermuth e del Barolo chinato: vini conciati che tanto strizzano un occhiolino alle conce che i Greci utilizzavano per correggere e arricchire il loro vino. Come è sempre stato, bisogna fare un passo indietro per poter proseguire verso il futuro.